Non riesco a rinascere
La fine di una storia d'amore horror
di Stefania Sbrighi
«Il livello ottimale di pressione oculare presente negli occhi sani è compreso tra i 10 e i 20 millimetri di mercurio. Se l’umor acqueo viene drenato troppo lentamente dal trabecolato la pressione dell’occhio aumenta. Bisogna monitorare il glaucoma.» — I medici dovrebbero essere rassicuranti, lui non lo era. Aveva una benda sull’occhio e sudava tanto. Forse era stato sottoposto ad un intervento chirurgico da poco, in ogni caso, pensai che fosse davvero il colmo per un oculista. Alla sua vista mi sarei messa a ridere se solo non fosse stato per la forte nausea che mi aveva colpita appena entrata in ambulatorio. A te sicuramente non piaceva, lo sentivo, ti scuotevi nel mio corpo.
Lui è stato l’unico a vederti per davvero, mentre mi frugava negli occhi durante il controllo del fondo oculare. Seduta di fronte al medico, avevo le pupille dilatate e gli occhi intrisi di una sorta di gelatina spessa che mi offuscava la vista. Volevo tenerli chiusi.
Lui, invece, decide di metterci sopra una lente. Mi chiede di muoverli a destra, e a sinistra. Ti vedo.
Me li sento risucchiare. Ci sono lampi di luce e pianeti pieni di fiumi di sangue.
« Lei ha un gemello? » — La nausea aumentava, sembrava di aver bevuto una bottiglia di vodka da sola.
« No.» — risposi seccamente.
« Sa che cos’è il fondo oculare? È la faccia interiore dell’occhio.» — disse il medico. Non rispondo, troppo concentrata a non far uscire l’occhio dall’orbita e il vomito dalla bocca.
« La sua però è verde.» — Aggiunse. Staccò dal mio bulbo colloso quella trappola per occhi: — « Le opzioni sono due: o lei è una scimmia o qualcosa le è entrato negli occhi, e forse non solo lì» ghignò l’oculista.
Terminata la visita mi consegnò, come le chiamava lui, le foto della faccia del mio occhio. Eri ovunque.
Mi avevi scritto sulla pelle: — « la nostra prima foto insieme ». L’oculista sghignazzò: — « Ah, e la smetta di vedere solo sangue». Uscita dall’ambulatorio, finalmente vomitai.
​
Il giorno in cui sei entrato dentro di me sapevo che non sarei riuscita a tornare indietro. Ero certa avresti lasciato delle ferite inguaribili, buchi impossibili da rimarginare che, come tatuaggi, tutti avrebbero potuto vedere,
anche nei miei occhi in quel luccichio verde brillante che emettevi. Lì eri comodo, e mi scaldavi le membra.
È doloroso pensare di lasciarsi.
Abbiamo avuto molti momenti felici, come il primo giorno in cui ti ho visto: camminavo per la campagna da sola. Aveva finito di piovere, il sole stava ricomparendo e presto avrei visto un arcobaleno. Il vestito era fradicio, così come i miei capelli. Durante la tempesta ho sentito la solita paura di volare via.
Lo penso ogni volta, probabilmente a causa delle mie caratteristiche fisiche che fanno sembrare il mio corpo un ramoscello secco, uno di quelli che non si farebbero crescere le spine nemmeno se qualcuno li pestasse ogni giorno.
Gli uccelli respiravano senza fiato, una rana saltava al rallentatore, e io avevo dolori al petto. Sei comparso insieme ai fulmini, tra le scariche elettriche e l’umidità. Mi hai abbracciata tra i tuoi fumi che facevano tossire e pizzicare la gola, mi hai riscaldata con dolcezza, asciugandomi i capelli e il vestito. Ci siamo amati da subito: — « Te lo ricordi?»
Sulla mia pelle le vene gonfie e pulsanti formano questa scritta. I rilievi sono bianchi con riverberi verdi.
Sono seduta in sala, è estate e il sole inizia a tramontare. Come al solito ti diverti a leggermi i pensieri.
Mi imbarazzava vivere e tu lo sapevi. Così sei entrato da lì, da quel buco che è la vergogna; si trova dove è il giugolo del collo. Baciavi con dolcezza tutti i miei organi. Mi passeggiavi dentro l’intestino e scivolavi tra le sue pieghe.
Quando nell’aorta la velocità di circolo era al massimo ci sguazzavi ti divertivi come un bambino con dei giochi d’acqua.
« Esci così posso rinascere! Esci così posso rinascere!» — Sudo, piango, sudo: devo espellerti.
Dalla faccia colano tutti i liquidi che il corpo può buttare fuori. Le lacrime sono fredde e risplendono del tuo colore verde.
Stai uscendo.
​
Non ho mai avuto un figlio, ma lo immagino così un parto. C’hai messo del tempo ad andartene, non volevi proprio staccarti, abbiamo dovuto litigare. Ho paura di rimanere solo un involucro, pelle straccia, senza nulla dentro. Sento odore di fieno appena tagliato, sento odore di ozono. Sei trasparente e informe, composto da vecchi residui di polvere e filamenti di tessuto. Inizi a prendere consistenza; intravedo il tuo volto, anche le mani prendono forma. Ancora in parte indecifrabili, allunghi le dita verso la mia faccia stremata. Le sento umide e vaporose.
Ti avvicini di più, immersa nella tua nebbia sembra di essere dentro una sauna fredda. Mi baci; il tuo alone verde e umido mi rimane sulle labbra, delicatamente lo soffi via, così come i rimasugli delle lacrime e del sudore.
Ora che sei fuori dal mio corpo il tuo volto è definito. La luce verde dentro i miei occhi si è spenta, ho una faccia morta. Mi riscopro grigia e insignificante.
Una creatura sfortunata costretta a vagare. Devo rinascere,
senza di te.
Questo testo è parte dell'installazione del trittico Non riesco a rinascere, 2024 di Stefania Sbrighi.